Quando, dopo la telefonata di Rita Ernst ho chiuso il cellulare, ero emozionato. La voce di lei, la sua difficoltà a esprimere quanto era accaduto, mi avevano colpito, e sapere che Mario Cassisa ci aveva lasciato mi rattristava profondamente.
Ero stato con lui qualche mese prima, in una cena intima per il suo settantottesimo compleanno a casa di Rita, ed era gongolante perchè forse si apriva (come poi si è aperta) la possibilità di fare una mostra con la Fondazione Orestiadi. Nel nostro ultimo incontro personale, in via Garibaldi, dove lui era una specie di guardiano della vitalità della Città, (sempre pronta a spegnersi!), la sua felicità era piena; ed era gratificante per me il suo bisogno di condividere il momento della mostra di Gibellina. Da quando avevo presentato la sua esposizione a Sant’Alberto mi aveva in grande considerazione, ed io che non sono un critico d’arte, ma scrivo d’arte (e d’altro) per imperativi misteriosi della vita, considero quel momento, vissuto con poche persone, uno dei più belli nel mio approccio con gli artisti. Sentir dire a Mario Cassisa che io ero tra i pochi ad averlo capito era straordinariamente intrigante, mi faceva vanitosamente pensare di aver fatto le scarpe a qualcuno che, più bravo di me, non aveva saputo tuttavia entrare nei suoi labirinti, non aveva saputo guardarlo negli occhi della sua memoria.
Il nostro primo incontro era avvenuto ad Erice nel 2002, durante una manifestazione della Diocesi che si chiamava IncontrArti. Iniziava il suo rapporto con la Chiesa di Trapani. Segni ne rimangono il bellissimo crocifisso astìle del Santuario di San Vito e alcune opere presenti nella Collezione Di.ART. I dialoghi erano intensi, ironici, divertenti e profondi.
La sua era una religiosità complessa, cioè siciliana, ma che riconosceva in Cristo l’elemento centripeto della storia: è questo il senso di una delle sue opere più belle presenti alla Di.ART, cioè il Cristo Pantokrator di Monreale che campeggia ad accogliere con la sua croce la storia policulturale della nostra Isola (Punici, Greci, Latini, Arabi, Bizantini).
C’è sincretismo, certo, ma è innanzitutto culturale ed artistico, secondo quella caratteristica che Leonardo Sciascia, scrivendo di Cassisa a Cassisa nel 1974, chiamava “avventurosa acculturazione”, con tutti i rischi di decentramento psichico che l’acculturazione comporta e che Cassisa tuttavia superava per il suo procedere “a rebours”, all’indietro, per dirla sempre con Sciascia, a cercare il punto unificante. E “indietro” c’era sempre la Sicilia. Cassisa assimilava tutte “le cose che ad ogni viaggio vedeva”, nel senso di “renderle simili: alle cose siciliane, naturalmente” (sempre Sciascia!).
Senza aver letto lo scritto di Sciascia io presentai la Sicilia come la metafora dell’arte di Cassisa, arte della memoria che per uscire dai suoi labirinti aveva il coraggio di gettare lo sguardo sulla morte e sul conflitto dei contrari, che è il più costante “a rebours” di tutti i grandi siciliani (non a caso, il poeta di Cassisa era Quasimodo); egli superava l’horror vacui di questo sguardo all’indietro attraverso l’inesausto procedimento creativo dell’arte, sia nel senso dello spazio, coprendo tutte le superfici (anche le cornici); ma anche nel suo svolgersi cronologico, tanto che Cassisa nel 1995 si vantava delle sue 80 mostre e “mai una ripetuta”.
La sua morte mi ha rattristato; ma anche mi ha rattristato, devo ammetterlo, il modo in cui l’abbiamo salutato, in quella stanza funeraria approntata velocemente, come se fosse diventato scomodo: non in una chiesa (dove da vivo non disdegnava di entrare), non dentro il Seminario dove ha lasciato delle opere e ha trascorso tante ore, non nella chiesa di sant’Alberto dove era di casa e aveva fatto anche una bellissima mostra. Ho fatto silenzio, rispettando le decisioni prese. Ma quando un signore un po’ impomatato ha voluto fare il sacerdote più di me, che sono prete, affidandone lo spirito al grande architetto dell’universo, sinceramente ho sorriso, pensando al fantasioso, colorato, antigeometrico Cassisa, che, pur di non restare impigliato in quelle cosmiche geometrie, sarebbe stato disposto ad un ulteriore “a rebours”, quello di alzarsi dal suo feretro e di farci un’artistica pernacchia.
Liborio Palmeri